23/05/2024
Il rapporto tra la tutela del creditore in sede civile e la presenza di sequestri e confische penali ha assunto col tempo una sempre maggiore rilevanza data dalla necessità di adattare le esigenze private dei terzi creditori a quelle pubbliche tipiche dei procedimenti penali. Sotto il profilo civilistico, è riconosciuta la possibilità del creditore di aggredire il patrimonio del debitore, costituendo su parte di questo un vincolo giuridico. Di contro, dal punto di vista penale, il nostro ordinamento riconosce lo strumento della confisca penale come elemento necessario ad assicurare la repressione delle organizzazioni criminali e delle commissioni di attività illecite. Il contrasto nasce quindi tra l’interesse delle due parti coinvolte: stato e creditore. Da un lato deve essere assicurata l’efficacia della misura di prevenzione patrimoniale, dall’altro è evidente l’esigenza di dover tutelare il terzo estraneo agli illeciti commessi. Per quanto vanti un legittimo diritto di credito, non è inverosimile lo scenario nel quale il terzo si veda privato dei beni attraverso i quali avrebbe potuto soddisfare il proprio credito. Tale situazione è stata oggetto di una specifica disciplina che il legislatore ha inserito all’interno del Titolo IV del Codice Antimafia. Il testo dell’articolo 52 (diritti dei terzi, d.lgs 159/2011), infatti, elabora la tutela del creditore nell’ambito di un procedimento ablativo disposto a carico del debitore. I requisiti necessari al riconoscimento della tutela sono elencati dal testo dell’articolo, per quanto questi abbiano subito diverse modifiche a seguito dell’introduzione del Codice Antimafia. Il testo originale dell’art. 52 prevedeva che il credito potesse essere riconosciuto qualora non fosse strumentale all’attività illecita del proposto, a “meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità”. Quindi il creditore era tenuto a provare soltanto la mancanza di strumentalità del suo credito e, nel caso non vi fosse riuscito, avrebbe potuto vedere comunque riconosciute le proprie pretese dimostrando di avere acquisito il credito in buona fede. Con la legge 161/2017, i presupposti di accesso alla tutela sono stati modificati, imponendo al creditore la dimostrazione che il credito non sia strumentale all’attività illecita del proposto (come nel testo originale), “sempre che il creditore dimostri la buona fede e l’inconsapevole affidamento”. Non sarebbe stata quindi più necessaria la sola dimostrazione dell’assenza di strumentalità, ma anche quella della propria buona fede. L’estrema rigidità del nuovo testo è stata recente oggetto d’esame della sentenza n. 30153 dello scorso 23 luglio, attraverso la quale la Suprema Corte ha affermato che nulla cambierebbe dalla norma previgente, lasciando quindi invariata la situazione circa la necessaria dimostrabilità della buona fede. Ancora, i giudici di legittimità hanno specificato che per gli istituti di credito l’accertamento della buona fede sia vincolato al tipo di attività svolta e dai rapporti patrimoniali e personali pendenti tra le parti. L’obiettivo del legislatore, con l’articolo 52 e quanto più confermato dall’intervento della Suprema Corte, è stato quello di introdurre una specifica tutela della figura del creditore nei conflitti con le misure ablative che spesso lo vedevano come parte danneggiata per gli illeciti commessi dal debitore.